MATRICE

Matrice: note sulla collezione | Matrice: notes on the collection

– che viene fedelmente interpretata (e stonalizzata) guardando ad un

ventaglio di diverse tipologie – pacatezza visiva e fondativo rigore.

Dell’architettura c’è anche l’attenzione alla scala: Matrice si articola

su moduli dalla dimensione architettonica e grandezze differenti

grazie all’elaborazione delle “grandi lastre”, il che aiuta a non percepire

otticamente la scansione spaziale della griglia.

Allora, grazie a questo reset visivo, si percepiscono le geografie che

emergono da superfici cementizie, grigie e dense, decorate come un

tempo dalle tipologie di lavorazione così come dagli agenti atmosferici

in asciugatura.

Tra le tipologie, atlanti di segni che sottili vibrano sulle superfici,

le lastre si articolano tra finiture che riportano la suggestione visiva del

calcestruzzo - dove emergono maggiormente gli aggregati del cemento

- del casserato - che interpreta l’impressione dello stampo positivo

in legno - dello strutturato - fedele all’intonacato cementizio grezzo -

del rigato e dello striato - dove la trama ricorda alcuni motivi lineari di

lavorazione superficiale - per poi arrivare alla versione liscia, ovvero base,

su cui Matrice esercita quella iniziale dicotomia.

È su queste superfici infatti che Brondi e Rainò hanno immaginato

un ulteriore riverbero progettuale, un codice figurativo che nega il

concetto di griglia, da sempre connesso a quello di modulo: attraverso

un vocabolario di segni grafici incisi sulle lastre con una profondità di

3mm, stessa misura di separazione che si ottiene in posa tra un modulo e

l’altro, generano un impianto per insiemi infiniti di locuzioni possibili.

Come succede nel ricamo, dove ci si muove attraverso griglie

di punti e ripetizioni geometriche, e dove ogni punto è ortogonale

a un altro per la costruzione di figure e decori. Del ricamo c’è poi

l’idea di contrapporre una certa “morbidezza”, di togliere rigidità a

superfici volutamente sorde. C’è la suggestione di trame che possono

essere tessute all’infinito, come avviene nel tessile, e di una scala che

diversamente dalla superficie su cui lavora viene immaginata come

sospesa, leggera. Non lo dicono, ma i BRH+ sono intenditori di musica,

anche elettronica, e a me sembra che questo insieme di groviglio

organizzato di segni infiniti – impossibile da riconoscere senza la visione

d’insieme – somigli alle rappresentazioni dei suoni sintetici. Suoni che

vengono composti dalle macchine, ovvero “tessuti” campionando e

soprapponendo fonie della più improbabile astrazione, che poi, una

volta assieme, diventano jingle che non se ne vanno più dalla mente.

Per questo forse mi interessa quello spazio che si dilata tra quel film

intonato e il suo sfondo sordo e umido. In quella sospensione lo sguardo

naviga, indisturbato.

Diverse superfici dunque, diversi formati, diversi segni. Ma un solo

colore (infatti!), per evitare la cacofonia non solo di segni ma anche

di possibile lettura: rimangono radicali (e generosi) gli autori, che da

curatori, come ben sanno fare, lasciano agli attori (progettisti e posatori)

la loro stessa interpretazione. Quel colore e la sua Matrice produrranno

figure nelle loro mani, su superfici che qualcun altro abiterà. Quel

gentile riempimento e la sua fattura rimangono al gesto umano di chi

probabilmente queste poche righe non le leggerà, ma sarà in un cantiere,

con uno stereo che passa la radio, concentrato sulla posa di questi

elementi. Allora un progetto radicale come questo, che appare silenzioso,

ha poi le sue ricadute nel mondo reale che abitiamo. Matrice non ha

forma propria, se non quella ogni volta pensata e auto-tracciata da

nuovi artefici.

E quel gesto, così standardizzato dalla forma omologata dalla

produzione e dall’efficienza del mestiere, qui è origine e causa di

cambiamento e innesta la variabile della scelta e dell’interpretazione,

in quel cantiere polveroso che la musica (e la calce) diffonde.

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